Questo blog è nato almeno due anni fa. Nella mia mente solo, in realtà. E forse riesce a concretizzarsi ora, forse no, però voglio almeno darmi l'opportunità di provarci. Origina dalla solitudine profonda, sconfinata che ho provato quando mi sono resa conto che il mio bambino era diverso dagli altri. Dall'imbarazzo che leggo negli occhi delle persone quando lui ha dei comportamenti che risultano anomali in pubblico. Dalla paura e il disagio che provo quando penso che non so come evolverà. Dalla pena che provo per lui perché so che vivere è difficile per chiunque e che la sua strada sarà di certo più ripida di altre. Dalla lotta quotidiana intrapresa con la sanità, ma anche con la scuola e perfino con suo padre. Una vicina di casa del miei genitori, che conosco da quando ero bambina e che è madre di un figlio gravemente disabile, mi ha detto un giorno: "Non scoraggiarti. Ogni mattina, ricordati di indossare l'elmo ed esci a combattere". Ecco, forse l'elmo non basta, ci vuole anche l'armatura, almeno a metà, quanto basta per proteggere il cuore, lo scudo grande, per difendere lui e sua sorella, oltre che me stessa e qualche volta anche la spada. Che non guasta. Preferisco l'idea dell'elmo a quella di molte poesie in cui madri di figli con difficoltà si pregiano quasi di aver avuto questa opportunità. Per quanto mi riguarda, sarà che il mio senso di fede è fermo al cantiere con la scritta work in progress, non mi ritengo in alcun modo fortunata, non trovo alcuna consolazione né adrenalina nell'accogliere questa sfida. Fortuna è avere bambini sani, che scoprono il mondo da soli, che imparano a camminare e parlare in tempi giusti, spontaneamente. A me è capitato lui. Meraviglioso e a tratti incomprensibile. Un passetto alla volta, con grande fatica. E l'unica speranza, l'unica forza è l'idea che, finora, non ci siamo mai fermati. E farò tutto quanto in mio potere per riuscire ad andare avanti. Sempre. Però non mi nascondo. Non lo nascondo. Non me ne vergogno. E' così, qualcosa si è inceppato in qualche punto. La gravidanza è stata splendida, io non bevo e non fumo, non l'ho mai fatto. Giordano è stato desiderato e amato. Giordano non ha niente che non vada biologicamente. Gli esiti di tutti gli esami sono in ordine. Eppure non è un bambino come gli altri. E molto probabilmente non lo sarà mai. Questa è la situazione. E da qui si parte. Con tutta la serenità di cui siamo capaci. E se qualche accenno alla nostra esperienza può servire a qualcuno a sentirsi meno solo o anche solo a sapere che da qualche parte nel mondo qualcuno combatte la sua stessa battaglia, a noi fa piacere.

domenica 27 aprile 2014

Il tuo nome

Ho sottoposto la lettura del mio blog a una persona cui sono molto legata, per ragioni che solo io e lui conosciamo, e lui mi ha risposto “Bello, ma non mi piace il nome che hai scelto, Giordano”. Mio figlio non si chiama Giordano, io non mi chiamo Emma, e, in effetti, trovo difficoltoso scrivere di lui, di noi, usando nomi che i nostri non sono, però nelle mie intenzioni c’era quella di evitare una sorta di voyeurismo nei nostri confronti da parte di qualcuno, che so, uno dei nostri amabili vicini di casa, ad esempio, che incappasse per caso nel blog e finisse per spiarci, in qualche modo.
Qualche giorno dopo, gli ho mandato un messaggio che diceva: “Allora, come vogliamo chiamare Giordano?”. Lui: “Gabriele”. Io: “Perché Gabriele?”. Lui: “Perché è il nome di un angelo”.
Bene, amico mio dolce, non so se avrò tempo, pazienza e voglia di cambiare il nome di mio figlio tutte le volte in cui l’ho scritto nel blog, però so per certo che, anche se quando ho letto il tuo messaggio, ho sorriso, in realtà non voglio considerarlo un angelo. Gli angeli si levano lievi verso il cielo. Noi siamo qui, fermamente ancorati alla terra, e alle sue regole ferree. E io voglio che lui resti esattamente dov’è. Mano nella mia mano, ad affrontare la salita che abbiamo davanti.

Venerdì eravamo noi tre in gita a Treviso, città d’acqua e di palazzi antichi, ed ha passato tutto il tempo a dirmi “Mamma, andiamo a cercare un altro mulino?”, senza minimamente considerare quello che aveva di fronte. Perché lui è così, sempre proteso verso il nuovo, il diverso, il futuro, oppure scalpitante per poter ripercorrere un passato di cui ha ricordi nitidi che non riesce a dire. Incapace di focalizzarsi nell’attimo presente perché ciò comporterebbe una capacità di stare fermo, immobile e concentrato che ancora gli manca. Lui è vitalità, emozione e io ora voglio godermi appieno la sua abilità recentemente acquisita di spiegarsi, di capirmi. Ieri abbiamo percorso tutto il giardino dei nonni annusando il profumo delle rose, dei tulipani, degli iris. Abbiamo detto qual è l’edera e quale il pino. E lui continuava a ripetere “Dobbiamo trovare un’altra pianta”. Però anche la curiosità, la voglia di scoprire il mondo è nuova, e io voglio abbracciarlo e fargli conoscere tutto quello che riesco, sperando che le sue emozioni che ora sono una torre di mattoncini di legno appoggiati a caso uno sull’altro, che traballano ad ogni minima scossa, cadono e si ricompongono alla stessa velocità, pian piano si ordinino in un quadro pieno di colori, suoni e luce.

domenica 20 aprile 2014

Le palline

Oggi, uscendo di casa, ho visto la scatola delle tre palline di gomma, adatte a sviluppare i muscoli degli arti superiori e a migliore la manualità fine, che ho comprato poco tempo fa. Non le abbiamo quasi mai usate, con Giordano, se non per buttare giù i birilli, perché purtroppo alla fine il tempo è poco, dovrei ritagliarne di più, dedicare meno tempo a sistemare casa e cucinare, cose che faccio anche per loro certo, e giocare di più. Magari farmi aiutare da una persona, ma faccio fatica, forse soffro di qualche sindrome della superdonna, voglio mantenere sempre tutto il controllo e non delego. E poi soldini in più in tasca fanno comodo, visto che non sono mai moltissimi. Le palline, dicevo. Io sono totalmente dipendente da una famosa catena di discount per la spesa, tanto che i miei bimbi ne riconoscono il logo ormai, ovunque andiamo. Un giorno, di passaggio, mi sono fermata in uno diverso da quello dove vado di solito, sabato ora di pranzo, coda infinita alla cassa. Appena dietro di me un ragazzino, avrà avuto dieci, undici anni, la sorella maggiore, i nonni. Lo vedo subito. Bocca aperta, denti grandi storti, non sta fermo un attimo. E l'attitudine della sorella e dei nonni di parlargli e trattarlo come se fosse un bambino ben più piccolo. Gli sorrido d'istinto. Per una solidarietà che lui non sa, ma io ho ragione di provare. Lui mi guarda e dice qualcosa nell'orecchio alla sorella, lei gli intima di smetterla, lui mi guarda e ride. Caro, ho voglia di abbracciarlo, ci vedo mio figlio da grande, mi fa tanta tenerezza. Mi si avvicina, lo tirano indietro, al che dico alla nonna: "Non si preoccupi, ne ho uno uguale a casa". Si rilassano, mi sentono, sentono che capisco. Arriviamo alla cassa, io chiacchierando col bambino e vedo che hanno comprato una confezione di tre palline per la manualità fine. Le prendo, dico "Che interessanti, anche a mio figlio sarebbero utili perché ha problemi con la manualità fine". La signora dice "Anche lui, non fa niente, neanche a scuola, disegna e basta". Le chiedo dove fossero. Lei non risponde neanche, le mette oltre il divisorio,   sulla parte di nastro dove c'è la mia spesa e si allontana. Torna dopo poco, con un'altra confezione di palline per sé. E un grande sorriso. Ecco, sono piccoli gesti che aprono il cuore. Anziché stare a bocca aperta a guardare comportamenti che riteniamo anomali, perché non ci avviciniamo e facciamo una carezza.?Al cuore dico, non addosso. Basta così poco alle volte, un sorriso, un po' di comprensione, non ci vuole nulla. Ma per molte persone potrebbe essere un bel cambio di prospettive. Ci sono tanti genitori, nonni,fratelli, che non portano fuori casa figli, fratelli, amici con difficoltà per l'imbarazzo che si crea, per gli sguardi della gente. E allora queste persone, oltre a portare il loro destino difficile, non possono neanche godere del sole, dei panorami, della compagnia. Per alcune persone è oggettivamente difficile uscire perché crea loro stress allontanarsi dai luoghi protetti che conoscono, in quel caso è doveroso non forzarli, ma se sono gli accompagnatori a sentirsi in imbarazzo, allora no. Non va bene. Purtroppo a tutti potrebbe capitare un bambino ingarbugliato e meraviglioso come il mio, ad esempio, non è una colpa, una vergogna, non è nulla, se non una sfortuna, una fatalità. 

martedì 15 aprile 2014

Aquilone

Sto parlando molto, in questi giorni. Di me, di noi, di quello che siamo, di quello che facciamo.
E ho lasciato anche passare qualche giorno prima di scrivere ancora perché venerdì scorso c’è stata open – school nella scuola dell’infanzia dove vanno entrambi i miei bimbi belli. Io ero già stata la settimana prima a trascorrere un paio d’ore con Isabel, per cui sapevo come si sarebbe svolta la mattina. Le maestre avrebbero preparato tavoli e panchette nel salone, noi ci saremmo seduti e su un altro tavolo avremmo trovato tutto l’occorrente per preparare un bellissimo aquilone personalizzato. Con Isabel avevamo tagliato, pennellato la colla, fatto i buchi, passato il filo, attaccato le stecche. Ci eravamo fatte insieme la foto di rito e poi eravamo andate in giardino a “volarlo”, come aveva detto lei. Poi ci eravamo sedute allo stesso tavolo insieme ad altri suoi compagnetti ed avevamo riso e scherzato insieme, finchè Giordano non si era accorto della mia presenza in mensa. Mi guardava di soppiatto, schivando la testa del bambino che aveva di fronte e poi riportando l’attenzione sul suo piatto. Aveva continuato a mangiare in silenzio, ma la sua espressione era diventata sempre più triste. Anche la mia. Poiché poi il momento di mangiare mi sembrava controllatissimo dalle maestre e tutti i bimbi erano rigorosamente seduti che mangiavano, ho atteso un po’ prima di chiedere se avrei potuto alzarmi per andare a spiegargli perché ero lì e perché non ero con lui. Nel momento in cui l’ho raggiunto, il suo mento già tremava e mi si è lanciato contro. Tesoro della mia vita, quanta sofferenza a volte per poco, ma tutto è proporzionale all’età. Dovremmo rendercene conto e dare importanza ai loro piccoli drammi. Solo aiutare a risolverli o offrirgli soluzioni penso faccia di loro delle persone sicure. Alla fine abbiamo sfrattato un compagno di sua sorella e lui si è seduto con noi, con la conseguenza che lei è scoppiata a piangere perché quello sarebbe dovuto essere il nostro momento, uno dei rari attimi in cui aveva la mamma tutta per sé. Però, alla fine, ci siamo divertite ed è stato un bel momento di condivisione. La giornata con lui non è stata altrettanto rilassata, invece. Già quando sono arrivata, dava segni di irrequietezza. Non ne voleva sapere di sedersi sulla panchetta, insisteva perché  io vedessi i giochi che fa con la sua maestra al computer. Alla fine, lei ha proposto di andare proprio nella stanzetta dei computer a fare l’aquilone per permettere a Giordano di concentrarsi maggiormente, lontano dalla confusione degli altri. Ci siamo trasferiti, armi e bagagli, colla, forbici, nylon, carta crespa, filo, ma l’unica cosa che siamo riusciti a fargli fare è stato tagliare pezzetti di scotch. Tra un mugugno e l’altro. Tra un “giochiamo un pochino al computer” e un “andiamo fuori”. E vedere tutti i bimbi entusiasti, a costruire l’aquilone coi loro genitori e noi in due, io e l’insegnante di sostegno, a dover insistere continuamente anche solo per farlo interessare un pochino, mi ha rigettato nello sconforto, mi ha fatto pensare che sarà sempre duro, sarà sempre diverso il mio percorso con Giordano, che niente mai sarà lineare. Eppure questo c’è e da qui dobbiamo impegnarci per trarre il meglio che si può. Perché glielo devo, anche se alle volte mi esaspera, anche se alle volte vorrei solo arrendermi, e portarlo con me, altrove, lontano, so che non è colpa sua. E che lui, come tutti i bambini, fa quanto in suo potere per essere esattamente come mamma e papà lo vorrebbero. Io, alla fine, tutte le sere instancabile gli ripeto che è proprio un bambino bravo e che sono felice e orgogliosa che lui sia il mio. E non è una bugia.









giovedì 10 aprile 2014

Oggi non mi va!


Da fine settembre, il giovedì Giordano passa la mattina in un centro specifico per l’autismo a una quarantina di chilometri da casa. E’ ordinato, accogliente, e a lui piace lavorare, mettersi d’impegno nelle attività che gli vengono proposte. Per cui ci è sempre andato volentieri. Il papà, che da un anno non vive più con noi, il giovedì mattina viene e, di fronte alle due macchine, ci separiamo. Io porto Isabel alla scuola dell’infanzia regolare, dove il resto della settimana va anche lui e lui sale in macchina col papà, che invece lo porta al centro. Da un po’ di settimane, non è più molto entusiasta, però oggi il suo umore è cambiato totalmente nell’attimo in cui il suo papà è entrato dalla porta.
Ha iniziato a piagnucolare, cercava l’abbraccio, poi si scioglieva e si allontanava, dondolava, ripiangeva ancora. Era nervoso e inconsolabile. Il papà ha prontamente insinuato che fosse un moto di tristezza dovuto al fatto che non viviamo più insieme. Fare leva sui miei sensi di colpa è sempre un’ottima idea. Ma io guardavo Giordano, gli accarezzavo la testa, lo guardavo dritto negli occhi e lo incoraggiavo a dirmi cosa ci fosse che non andava. Niente. Mi seguiva, si fermava dietro di me e dondolava, piagnucolando. Alla fine, però, mi ha detto. “Mamma, all’asilo, con tutti i bimbi”. Abbraccio compulsivo. Amore mio bellissimo, ora riesci a descrivere piano le tue emozioni, a dare un nome a ciò che non ti fa stare bene. Sono progressi inimmaginabili. Solo mesi fa, non sarebbe stato pensabile capire cosa ti faceva piangere. Riuscivamo forse a risalire alla causa scatenante, a provare a indovinare. Null’altro.

mercoledì 9 aprile 2014

Il mio enigma


Che poi più gli do fiducia, più riesce.
Fintantoché lo guardavo come un enigma, quale in realtà è, forse in automatico, manteneva una distanza, seppur inconsapevolmente.
E quindi restava lontano, navigando nel suo mondo di ovatta, dove era difficile raggiungerlo, dove ogni stimolo arrivava lento, perdendosi in infinite onde nel tragitto.
Mana a mano che si avvicina, anche la sua mamma fa passetti verso di lui, lo abbraccia, lo stritola di coccole, scherza con lui, certa che ora lui capisce, o capisce un po’ di più.
E’ difficile, impossibile, temo, spiegare la solitudine profonda, il senso di inettitudine, inadeguatezza che si prova ad avere un figlio diverso. Mi sento di doverlo costantemente proteggere, di dover proteggere gli altri da lui, difendermi dagli attacchi, dagli sguardi di riprovazione quando lo chiamo e non risponde, quando gli dico di smettere e non smette.
Facile scambiarlo per un bambino maleducato. Una volta eravamo sulle giostrine sotto casa, e una nostra vicina, di quelle con cui ti scambi i saluti e pochi altri convenevoli, se ne esce con un: “Ma è autistico?”, a voce alta, senza filtri, indicando mio figlio. Certo, non sarà stata cattiva fede. A lui non era ancora stato diagnosticato nulla del genere, benché io avessi già insistito con la sua neuropsichiatra infantile in questo senso. Lei lo aveva totalmente escluso.
Però io mi sono sentita violata, in qualche modo. Perché chiedermi della patologia di mio figlio, se generalmente non si parla nemmeno del tempo? Perché farlo in piazza, senza nessuna delicatezza? I miei convenevoli con lei si sono ridotti ulteriormente.
Del resto, una mia amica è uscita per un periodo con un ragazzo disabile e mi ha riferito che la gente gli tirava pacche sulle spalle per strada chiedendogli cosa fosse successo per farlo finire su una sedia a rotelle. Come se una persona avesse voglia di raccontare a chiunque, per strada, ciò che magari gli ha distrutto la vita. Come quando tutti mi chiedevano della cicatrice sul mio viso. Ridendo. Ognuno ha i suoi fardelli. Dovremmo riuscire a essere delicati quando ci avviciniamo alle persone.

mercoledì 2 aprile 2014

Poco più di un anno fa


Ecco cosa scrivevo poco più di un anno fa.
Alcuni giorni penso che tutto può ancora succedere e vedo raggi di sole fuoriuscire da ogni ombra. Alcuni giorni chiudo gli occhi e vedo una donna soddisfatta, una madre fiera di due bambini perfetti.
Invece no.
Sono solo un madre confusa, impaurita, sconfortata e, di conseguenza, una donna divenuta fragile. Avere i miei bimbi uno dopo l’altro, nell’arco di poco più di un anno, è stato quanto di più forte e splendido sia mai accaduto nella mia vita, ma anche tanto tanto difficile. Inoltre, mentre aspetti un bambino, ci sono molti corsi di preparazione al parto, incontri con le ostetriche, con le psicologhe,  gruppi di future mamme che condividono un cammino. Ma nessuno ti prepara mai al fatto che qualcosa potrebbe andare storto, durante la gravidanza, il parto, e soprattutto dopo. Nessuno ti dice mai che il tuo bambino potrebbe non essere perfetto, potrebbe nascere con delle difficoltà o manifestarle in seguito. Ho letto ultimamente diversi interventi di madri e padri che parlano dei loro figli diversi in alcune riviste e mi ha fatto molto piacere, però la verità è che è sempre troppo poco e che siamo in tanti. Mio figlio Riccardo ha tre anni e mezzo ed è affetto da ritardo psico-motorio. Risonanza magnetica alla testa, elettroencefalogramma, esame del DNA e visita approfondita per riscontrare eventuali problemi all’udito hanno escluso una serie di patologie gravi o almeno riconosciute, definibili. Ritardo psico-motorio è un insieme di sintomi,  senza possibilità di sapere come evolverà e senza una cura specifica. Fa sedute di psicomotricità e logopedia. C’è pochissima letteratura in proposito. In breve, è in ritardo rispetto ai bambini della sua età per linguaggio, comportamento fisico, maturità psichica, sembra un bambino di due anni o poco più, senza che siano state rilevate le cause oppure le possibili soluzioni.
Spesso chiudo gli occhi e penso che quando li riaprirò lui sarà normale, parlerà e si comporterà come tutti gli altri bambini, poi ci sono giorni come oggi, in cui lotto contro le lacrime e la voglia di prendermela con lui per quel suo essere diverso e non rispondere agli stimoli come ci si aspetterebbe. Ho pianto disperata quest’estate in spiaggia, davanti ad un mare cristallino e centinaia di famiglie rilassate al sole, guardando i bambini, l’altra mia figlia compresa, giocare con la sabbia con secchiello e paletta, mulinello, formine e lui lanciarli solo lontano, quasi una forza centrifuga vincesse ogni suo proposito di giocare. Ho pianto alla prima riunione dell’asilo, quando si è presentata ai genitori la sua maestra di sostegno, dicendo, appunto di essere una maestra di sostegno nella sua classe ed il mio pensiero è stato che il mio bimbo bello è l’unico tra almeno sessanta altri ad averne bisogno. Piango tutte le sere quando, dopo aver messo a letto i bimbi, prego. Prego che Dio mi aiuti ad essere una buona mamma, soprattutto per lui. Piango ogni volta che deve evacuare e non ci riesce, si siede in bagno, devo intervenire con dispositivi adatti e lui ripete “cacca” urlando così tante volte che vorrei urlare anch’io, fino a finire la voce. E invece non posso, perché la chiave per arrivare a lui e fare in modo che capisca ciò che gli viene spiegato e progredisca è la dolcezza. Parlargli piano, catturare la sua attenzione, coccolarlo. E’ stato seduto da solo tardi, non ha mai gattonato, ha iniziato semplicemente a camminare ma, avendo saltato dei passaggi, quando cadeva o si sedeva, non riusciva poi a rialzarsi per camminare ancora. Ha iniziato a giocare solo recentemente, prima lanciava qualsiasi cosa gli venisse proposta lontano, non ascoltava, non guardava negli occhi, non parlava. Il miracolo è che lui, pian piano, pur in netto ritardo rispetto ai suoi coetanei, raggiunge i suoi traguardi ed ora sta iniziando a parlare, a mettere insieme più parole per farsi capire e ci riesce. E’ diventato fisicamente più sicuro, cammina tanto, corre, salta, tenta di arrampicarsi. So che l’unico modo per stare meglio per me sarebbe probabilmente attaccarsi con ogni forza ai suoi progressi, smetterla in maniera assoluta di fare paragoni di alcun tipo ed andare avanti, a testa bassa, senza mollare mai. Ma la verità è che mi sento così sola che a volte vorrei solo riuscire a chiudere gli occhi e non svegliarmi più, per non dover affrontare tutte le difficoltà con lui, con la previsione di un futuro incerto. Gli altri generalmente mi dicono di non preoccuparmi, che un ritardo si recupera e che tutto andrà a posto, i miei genitori sembrano non voler vedere o minimizzare le sue difficoltà, gli esperti mi incoraggiano parlandomi per ore dei suoi progressi e, allo stesso tempo, proponendomi di fare richiesta per la legge 104, le maestre della scuola dell’infanzia sono state molto accoglienti all’inizio, ma ora pare sia continuamente sotto analisi, qualsiasi azione anomala compia, mi viene riferita prontamente e non sempre con il tono giusto. Non ho trovato conforto in nessuna poesia, in nessuna parola, non mi ritengo fortunata, mamma speciale e, in quanto tale, scelta per prendermi cura di un bambino non facile. La verità è che mi sento solo sfortunata, molto sfortunata e ciò che più mi fa male è il pensiero di quanto sia sfortunato lui perché questo mondo e questa vita sono già difficili per tutti i normodotati, lo sono molto di più per chi parte già con qualche svantaggio. E so che purtroppo non ci potrò essere sempre io a proteggerlo, a mediare per lui il mondo esterno. E già ora, con la maestra dedicata, ad esempio, è diverso dagli altri, cui invece basta la maestra di tutti.
Tra l’altro, benché sia stata io per prima a parlare alla pediatra del suo ritardo generale e delle sue diffuse difficoltà, con l’intento di aiutarlo prima possibile e non ne sia pentita ad oggi, devo dire che ho incontrato persone capaci, interessate, ma anche persone inadatte a gestire situazioni così delicate. C’è stata una neuropsichiatra infantile che, dopo averlo fatto aspettare ore, incurante del suo disagio e del fatto che avesse solo venti mesi, gli urlava addosso. Oppure c’è n’è stato un altro, ex primario del reparto di pediatria dell’ospedale della nostra città che, durante una visita a pagamento, costata parecchio, ha dedicato pochissima attenzione al bambino promettendoci informazioni dettagliate in un incontro successivo, e molta di più a me come donna o ai problemi che riteneva affliggessero me e mio marito come coppia, offrendosi addirittura come terapeuta, a caro prezzo, naturalmente. Dopo di che, mi sono fermata, ora lui fa una vita normale, non lo faccio più controllare da molti medici, conosce la sua psicomotricista, la logopedista e la neuropsichiatra, ci andiamo regolarmente, ha con loro un buon rapporto, collabora. Io faccio per quanto riesco, col tempo libero che ho e con il limite di non essere un medico, lo stesso lavoro a casa, giocando tanto, ma anche cercando di insegnargli tramite il gioco, le canzoni, il ballo. I risultati si vedono. Piano, sempre troppo piano. Non so che sarà di lui, che persona diventerà, se riusciremo a superare le nostre difficoltà e a stare bene, a rilassarci finalmente. Io, insieme a mio marito che è purtroppo spesso via per lavoro, ed ai miei genitori, facciamo del nostro meglio perché lui sia un bambino sereno, cresca sicuro del nostro amore perché le basi sono fondamentali. Io cerco di non lasciarmi scoraggiare, anche se a volte soccombo, ma spero di riuscire a tenere tutto in piedi bene e vorrei trovare il modo di condividere la nostra storia per non sentirmi sola ed anche perché le molte persone che attraversano un’esperienza analoga sappiano che non c’è da vergognarsi, solo da dare ancora di più a questi bimbi speciali che hanno il diritto di avere le stesse possibilità di tutti gli altri.

Figli di nessuno - Torey L.Hayden


Boo rimaneva un bambino di sogno.Era dotato di una bellezza straordinaria,come tanti bambini autistici che avevo conosciuto.Sembrava troppo bello per appartenere a questo mondo.E forse nn vi apparteneva. A volte pensavo che Boo e quelli come lui fossero i bambini di cui parlano le fiabe.   Non trovavo poi tanto insensata l’idea che potesse essere davvero un bambino fatato,strappato alla bellezza fredda e lucente del suo mondo per rimanere intrappolato nel mio,e incapace di conciliare i due mondi. E avevo notato che,le rare volte in cui finalmente,dopo tanti sforzi,riuscivamo a penetrare il mondo di un bambino autistico o schizofrenico,lui,non appena cominciava a interagire normalmente con gli altri,perdeva un po’ della sua bellezza,come se l’avessimo macchiato. Quanto a  Boo,tuttavia,finora non ero riuscita a sfiorarlo,e la sua bellezza resisteva,immobile e luminosa come un sogno.

Torey L.Hayden - Figli di nessuno,p.35 superpocket